Liturgia

La Liturgia    

 

La novità importante degli ultimi 150 anni circa la liturgia è di aver cambiato metodi di studio per poter capire che cos’è. Capire quanto è importante il rito per la fede, ma con metodi nuovi.

La liturgia non è una serie di norme rubricistiche da osservare. Noi restiamo ai margini del rito perché se ci lasciassimo toccare dal rito esso ci cambierebbe.

Uno dei frutti del concilio, che è un momento di svolta, è che noi avremmo la possibilità di cambiare, ma non cambiamo perché non entriamo nel rito per cultura e formazione.

La liturgia ha bisogno di un metodo corretto.

Dobbiamo trovare 4 metodi per entrare nella liturgia. Capire la complessità.

E a seconda da dove entriamo abbiamo un volto diverso della liturgia.

Introdurre significa per il primo metodo: definire. Questo è il metodo sistematico.

E’ la strada che funziona partendo dalla domanda che cos’è?  Questo metodo ha subito un cambiamento sorprendente. E’ cambiata la definizione di liturgia. Attenzione ad un primo aspetto. Ad un certo punto si sente il bisogno di definire la liturgia. Prima del 1700 nessuno sente il bisogno di dare una definizione di liturgia. Solo nel 1900 se ne discute. Perché prima non ci si chiede cos’è? Perché prima i riti erano ovvi. Tommaso discute sui riti, ma non dà una definizione di liturgia. Liturgia = culto. Definizione che resiste fine al 1947 cioè fino all’enciclica “Mediator Dei” di Pio XII. Oggi non è più sufficiente per noi. E’ corretta, ma non sufficiente. Le definizioni vecchie non sono da buttare nel cestino, ma ora ne abbiamo una più complessiva. Non definire, ma fare è il 100% delle definizioni. Dice Mediator Dei: Liturgia= atto dovuto dall’uomo nei confronti di Dio, ma questo non è sufficiente. Il culto, la liturgia come “dovere fondamentale dell’uomo”, non basta più per l’uomo del XX° secolo. Cambia in un modo banalissimo.

Atto= dovere dell’uomo

Ma il rapporto Dio-uomo ha anche il versante da Dio all’uomo che è la santificazione.

Tommaso parlando separa culto e santificazione anche se non è così perché in ogni liturgia ci sono entrambi i movimenti. C’è sempre culto e santificazione.

La stessa MD capisce che la novità di cui rendersi conto è che la liturgia è sempre atto dell’uomo, ma è anche sempre atto di Dio. Partendo dalla Pasqua, facendo sì che ogni liturgia sia atto di Cristo, c’è un incontro tra ciò che Dio fa e ciò che l’uomo fa. Al n.16 del MD dice che la Liturgia è culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre come capo della Chiesa ed è il culto che la Chiesa rende al Figlio e attraverso di lui al Padre. È il culto integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, della relazione Cristo-Chiesa.  Nuova esigenza nell’essere fedeli a ciò che si compie. Si ricomincia ad essere cristiani ripartendo dalla liturgia. Si deve ripartire dal chiedersi che cos’è la liturgia e perché si compiono determinati atti. 

Il nuovo paradigma liturgico è nello stesso tempo un paradigma in cui essere introdotti per un approfondimento, per un al di là, diciamo così, ma anche per una logica di un al di qua. Entrare all’interno della liturgia, in una liturgia con cui avete già rapporto, significa, rispetto alla cosa che fai, pregare, celebrale ecc.. , cioè rispetto a ciò che celebri, vedere cosa c’è al di là, ma anche vedere cosa c’è al di qua. Prendere la liturgia non solo come una cosa piena di contenuti, ma anche come la forma dedicata. Nella liturgia della Parola è importante curare l’udito e non la vista. Perché l’assemblea ascolta,  altrimenti avremo dieci, venti, trenta persone che leggono ognuno per conto proprio. La liturgia vive del fatto che si ascolta insieme. Non è importante l’intimismo e l’individualità nella liturgia, ma proprio il fatto di far parte di un’assemblea. Oggi siamo figli di un tempo in cui i riti non sono importanti. Ma nei simboli rituali è Cristo che parla al Padre. Nella liturgia c’è il rapporto tra l’agire dell’uomo e l’agire divino. La vera novità sta nel far fare alla liturgia un lavoro di fondo, di base,  nel rapporto con Cristo e con la Chiesa. E lo può fare solo se è in italiano e non in latino, solo se i fedeli hanno un ruolo che è anche ministeriale all’interno dell’assemblea, solo se tutti compiono lo stesso atto anche se qualcuno presiede e altri no e così via, ma questo non è il fare la rivoluzione, ma il tornare all’abc. Quindi a livello sistematico, questa definizione che mette l’accento non solo nella Chiesa, ma anche in Cristo e in Dio, cambia completamente i modi di fare e le priorità.

Il metodo sistematico che è il metodo che dà le definizioni. E dentro questo metodo c’è stato un grande cambiamento. Nasce, in questo stesso periodo un metodo nuovo che è il metodo della deduzione storico-testuale. Cioè, ci sono testi, soprattutto la Bibbia, ma anche altri, che vengono studiati per capire cos’è la liturgia. Non si definisce astrattamente: è culto della Chiesa, è culto integrale del corpo e del capo, ma si dice: cosa dicono i testi liturgici? I testi Biblici? Questo è un metodo tipicamente moderno. L’esegesi è uno studio moderno. Ci si è messi a lavorare pensando che la Scrittura sia la fonte prima è un metodo che nasce dopo il rinascimento e che si specializza nella chiesa nell’800-900. San Tommaso, quando definisce qualcosa, comincia a parlare della Scrittura. Nell’800-900 nasce un metodo per capire la liturgia a partire dalla Scrittura e a partire dai testi liturgici. Questo è un metodo ancora fortissimo che fa della liturgia solo un problema di testi. Il classico modo di capire sistematicamente la liturgia e i sacramenti è individuare per ogni sacramento:     forma,    materia,    ministro,   dove con forma si intende la formula, con materia si intende l’elemento materiale, e per ministro colui che ha il potere di dire la formula sulla materia.  Questo è un modo classico di capire la cosa. Il metodo di deduzione testuale aiuta a fare il passaggio circa la forma che è da questa formula a forma verbale. Cioè, tutto ciò che si dice nella liturgia è interessante, non solo la formula. Questa è una grande evoluzione. Se è importante non solo ciò che si dice fino ad un certo punto, ma tutto quello che si dice, allora le fonti sono moltissime, molte fonti bibliche e molte fonti che sono appunto i rituali. Interesse per la forma verbale. La materia da semplice elemento a materia storica cioè tutto: pane, vino e acqua e quindi non solo la preoccupazione del “è veramente vino?”. Si considera la materia dal punto di vista della storia cioè quello che significa quell’elemento, non solo quello che è, e dal ministro si comincia a guardare alle relazioni ecclesiali. Questo è il passaggio, che non è l’unico, ce ne sarà un secondo: si arriva a forma rituale, materia simbolica e rapporto presidenza–assemblea.  Cosa vuol dire? Che dalla formula si passa a tutte le parole che si dicono, ma poi si scopre che tutte le parole che si dicono sono solo una parte di tutte le cose che si fanno.  C’è  cioè un rito complessivo fatto di parole, ma anche di non parole, di movimenti, di spazi, di tempi, di silenzio, dove dentro ci sono tante parole e poi ci sono alcune parole di peso specifico più importante. Nella tradizione si è tenuta solo la prima parte che non è sbagliata, ma che è troppo stretta. Noi dobbiamo inserire la formula in tutta la forma verbale e la forma verbale in tutta la forma rituale, così c’è pane e vino, c’è olio, c’è acqua che hanno una storia, ma ci sono simboli potentissimi antropologici e teologici.  Il pane non è solo quella cosa che deve venire dal grano, senza lievito ecc.., ma è anche esperienza storica di relazione e di nutrizione, di dipendenza e lì c’è anche simbolicamente la relazione di figliolanza, di fratellanza in quanto posa in una cultura.  Se noi estendiamo questo senso delle parole cominciamo ad entrare in rapporto con la cultura. E se, per esempio, una cultura non ha il pane nella sua tradizione? Se rimaniamo nella prima parte, nella formula, non mi interessa, se entriamo nel  livello storico già qualche problema c’è, ma a livello simbolico il rapporto tra pane e corpo è mediato da una esperienza verbale che se non c’è non me la posso inventare. (questione del pane di frumento – lontananza da Gesù che storicamente è provato che usasse pane di miglio, ma non di frumento, frumento obbligatorio viene solo nel medioevo). Ora questo metodo storico-testuale ci aiuta a capire che le astrazioni del metodo della definizione devono essere corrette andando ai testi. I testi non basteranno, ma i testi sono già una liberazione. Questo è quello che succede nella preghiera eucaristica: se la gente riuscisse a fare proprie quelle parole! Il problema è che nell’assemblea, al momento della preghiera eucaristica si entra in trans e la prova è che se nella preghiera eucaristica c’è “per Cristo nostro Signore” tutti rispondono, sbagliando, “amen” cioè come dire “oh dove siamo!” è come se uno fosse lì così mezzo addormentato o estraniato. Veniamo da una tradizione in cui in quel momento lì, se non suonava il campanello, uno si diceva il rosario. Abbiamo per cultura interiorizzato il fatto che in quel momento lì il prete fa una cosa e l’assemblea ne fa un’altra. Oggi si sta lì così come a dire: “non posso fare altro” e allora sopporti. Poi se suona il campanello o se senti - “Santo, Santo” - o se cominci a vedere l’elevazione,  allora cambi posizione, poi ti rimetti in piedi e rientri in un piccolo limbo fino al “per Cristo, con Cristo ed in Cristo”.  Ma perché? Perché il testo non ha niente da dirci mentre è una serie di affermazioni di una potenza sorprendente. Il metodo storico testuale ci permette di trovare delle definizioni bibliche di che cos’è la liturgia. E questa nella tradizione cattolica è una piccola rivoluzione perché siccome lo facevano i protestanti noi non dovevamo farlo ed era proprio vietato farlo. Oggi si parte dalla Bibbia. Da essa cerchiamo tutto. Ma questo è liberante. Ci libera da schemi che si sono sovrapposti successivamente. Gli ultimi due metodi che sono ancora più nuovi, abbiamo cioè il metodo classico che è il primo, già quello dell’esegesi testuale è un metodo più recente, ancora più recenti sono:  il terzo metodo, la terza via: il metodo della narrazione. Questo è un metodo che ci spiazza un po’, però è il metodo che usava Gesù quindi vedendolo usato da lui ovviamente, con tutto il senso del limite, possiamo usarlo anche noi. Ed è il metodo con cui Gesù, se gli chiedono “chi è il mio prossimo?” Lui risponde: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico …”.  Non risponde con “è colui che …” con la definizione o con l’esegesi, ma racconta una storia. Allora abbiamo dei testi per esempio Sacrosanctum Concilium; tutti i primi numeri di Sacrosanctum Concilium che non definiscono cos’è la liturgia, ma ce la raccontano, ci raccontano la storia della salvezza, ci dicono che Gesù muore e risorge, ascende, dona lo Spirito e la Chiesa che continua nella liturgia la parte visibile di Gesù che non abbiamo qui disponibile e che l’abbiamo nella forma del mistero liturgico. Non è l’unica, ma è la forma più esplicita di presenza del Signore. Voi sapete che la presenza del Signore in mezzo ai suoi non è pensata solo come la particola da adorare, ma è l’assemblea che si raduna, l’ascolto della Parola, la preghiera comune, il ministro che presiede. Sono tutte forme nelle quali il Signore è presente in mezzo ai suoi. Allora raccontare la storia della salvezza è il modo più grande per dire che cos’è la liturgia. Questo è un metodo narrativo che per certi versi è deludente perché noi siamo mentalmente un po’ deformati, perché se chiediamo una cosa vogliamo la definizione, invece tu chiedi una cosa e quello, che è Gesù, ti racconta una storia e la chiesa si mette a celebrare, a pregare. Ecco, come dice Agostino, non capisci più fino a che punto sono le sue parole sulla tua bocca e le tue sulla sua. Questa è una bellissima frase che usa Agostino e che è riportata nei Praenotanda della Liturgia delle Ore. Le nostre voci sulla sua bocca e le sue voci sulla nostra. Infine, il metodo della osservazione. Quello che con un linguaggio dotto si dice fenomenologico. Metodo fenomenologico vuol dire che la liturgia è prima di tutto quello che appare che è un bel metodo proprio opposto a quello della definizione perché la definizione dice: “il vero significato è questo”, con il metodo della definizione noi tendenzialmente spieghiamo tutto, il metodo fenomenologico dice: “osserviamo che succede”, partiamo da quello che si fa. Se si celebra per non sbagliare, si fa tutto meno che celebrare. Bisogna celebrare per celebrare. Questa è proprio una mentalità che bisogna guadagnare. Con il metodo fenomenologico tu entri nei sacramenti soprattutto vedendo quello che c’é. Non si può dire una cosa, mentre se ne fa un’altra. Il rito ha bisogno della coerenza corpo – parola, mentre noi ritualisticamente abbiamo separato, tu puoi dire due o tre cose e nel frattempo fai altro: stai dicendo la preghiera eucaristica e stai pensando con il telecomando a trovare la musica adatta perché non hai chi suona. Non si può fare così. Bisogna, in modo elementare, osservarsi a celebrare, sia che uno sia presidente, sia che uno sia celebrante perché tutti cercano.  Noi continuiamo a chiedere: “oggi chi celebra?”. La risposta è “tutti”, come sempre. Bisogna invece chiedere “chi presiede?”. La lingua dimostra che noi continuiamo a pensare che la celebrazione è per il prete e noi assistiamo e questo è il modello che non regge più da 150 anni. Ha avuto una sua fortuna in una chiesa clericale, ma se la chiesa è ogni battezzato, non significa che io nego l’importanza del prete, ma che il prete è al servizio dell’atto celebrativo di tutti, non sostituisce nessuno, né Cristo, né la chiesa, ma è davanti all’uno e davanti all’altra. In persona Christi non vuol dire essere al posto di Cristo e della Chiesa, ma sto davanti a Cristo come Chiesa e davanti alla Chiesa come Cristo, che non è un mestiere da poco, che però non vuol dire che “faccio tutto io”. Oggi noi questo lo applichiamo a tutti quelli che diventano ministri. Nel matrimonio, l’idea che i ministri siano gli sposi, spesso fa fare l’errore madornale che se sono ministri quella volta lì e solo quella volta lì, allora è meglio sparare tutte le cartucce possibili e cioè si sposano, dicono la formula del consenso, preparano l’altare, vanno a leggere le letture, ci vuole a tenerli fermi alla consacrazione, gli si fa fare tutto, ma è proprio sbagliato perché invece tutti devono essere legati alla propria ministerialità. Noi siamo assemblea celebrante, ma questo non toglie nulla al prete, anzi gli dà l’importanza. Il metodo fenomenologico è molto elementare: osservare che non è solo questione di formule né di parole, ma c’è una forma rituale che è fatta di spazio e di tempo prima di tutto, che è il rito, qualsiasi rito è sempre collocato nello spazio e nel tempo. E’ fondamentale capire che l’atto rituale comincia da un’attenzione allo spazio e al tempo, ad un modo di vivere lo spazio e il tempo. Io non posso dire quelle formule, quelle parole in uno spazio e un tempo neutro, sciatto, dove dico tutte le parole e le formule in 15 minuti. Questo dice la qualità dell’esperienza che sto facendo. Togliendo lo spazio e il tempo io sto già fuori dal mondo. Non celebro più la liturgia nel mondo, la celebro in nessuna parte, né in cielo né in terra. Sono fuori luogo. Oggi il punto di partenza è dal metodo deduttivo al fenomenologico dobbiamo impostare tutto al contrario, cioè cominciare dall’osservazione per arrivare alla deduzione. Se tu parti dall’osservazione non fai più gli errori madornali perché capisci che si tratta anzitutto di fare l’atto non di compiere doveri o di dire parole, ma di compiere un atto che è fatto di formule, di parole, ma anche di gesti, di sensibilità, della attivazione di tutti i sensi, cosa che sembra non solo secondaria, ma anche un po’ negativa.

Questo ha delle conseguenze sul nostro presentare e capire la liturgia.

Tre sono le domande che ci poniamo: Come? Che cosa? Perché?

Di fronte alla liturgia, storicamente, ci siamo fatti la domanda come si fa? che cosa si fa? e perché si fa? La domanda sul come è una domanda antichissima, quella sul che cosa anch’essa abbastanza antica, la domanda sul perché è una domanda molto più recente. Oggi noi rispondiamo al contrario, capovolgendo. Rispondiamo prima di tutto al perché?, poi che cosa si celebra? e alla fine dovremo ricordarci di rispondere alla domanda come?. Uno dei vicoli ciechi di oggi è che noi sappiamo il perché e che cosa, ma sul come non ci interessiamo. La liturgia invece ha bisogno di una competenza sul come? Da come si fa la cosa si decide che cosa è? e perché?. Questo è un lavoro che faremo da qui a cinquant’anni. Nei prossimi cinquant’anni questo sarà il nostro compito: tenere insieme il perché?, il che cosa? e il come? si celebra. Solo così sapremo dare di nuovo la parola ai riti che è la cosa fondamentale.